L'altro giorno mi hanno regalato un libro di Reiner Maria Rilke,
una raccolta: "Lettere ad un giovane poeta, lettere ad una giovane
signora, su dio".
Non avevo mai letto nulla di Rilke e a parte la data di nascita e
quella di morte continuo a non sapere nulla su di lui. L'edizione
Adelphi infatti non e' granche' prodiga di notizie in materia.
A dire il vero non sono mai stata una grande curiosa dei retro
copertina. I libri mi piace leggerli senza sapere nulla della vita
di chi li ha scritti, per godermi il contenuto senza pregiudizi di
alcun genere. Non sono come mia mamma che quando legge i libri gialli
vuole sapere prima chi e' l'assassino cosi', dice, puo' leggere
senza fretta e gustando i particolari.
Tornando al mio nuovo libro, sono riuscita a leggere le prime due lettere,
che sono lettere vere. Sono indirizzate ad un giovane uomo, un poeta,
che chiede a Rilke un giudizio sulla sua opera.
Rilke gli dice che per capire se veramente debba fare il poeta si deve
domandare: "potrei io vivere senza scrivere?". Solo in caso la risposta
a questa domanda sia negativa allora uno ha diritto di scrivere.
Inoltre non si deve guardare all'esterno per trovare giudizi e
consensi sulle propri opere: la creazione artistica e' qualcosa in cui si
e' soli e il soggetto della nostra opera deve venire dall'interno di noi
stessi. Siamo veri poeti se riusciamo a vedere la poesia nella nostra vita,
per quanto semplice e piana possa essere.
Ho sempre sospettato che ogni scrittore parlasse di se stesso e delle
proprie esperienze nelle pagine dei suoi libri, quello che mi sono sempre
domandata e' come facessero ad essere cosi' bravi a dissimulare, a trasfigurare la
loro esperienza vissuta in qualcosa di completamente diverso.
Qualcuno(e non e' un indovinello snob e' che nel salvare la citazione mi sono
dimenticata di segnarmi l'autore...mannaggia!) ha scritto:
"Quando uno scrive è se stesso, ma nella sua totalità. Mentre quando vivo e mi muovo
in società e sono con i miei amici o con la mia famiglia io sono solo parte di me
stesso: sono una parte cosciente di me stesso, una parte pubblica di me stesso, ma
io non scrivo soltanto con quella parte cosciente, con quella parte pubblica di me
stesso, al contrario. Quando scrivo, scrivo con la totalità della mia persona, con
il meglio che c'è in me e con il peggio che c'è in me, scrivo con le mie idee, ma
anche con i miei istinti, scrivo con le mie convinzioni, ma anche con le mie passioni.
Da lì emergono gli angeli che ho dentro e i demoni che ho dentro, e spesso anche le cose
che non vorrei sapere di possedere ma che vengono fuori al momento di scrivere, se scrivo
con autenticità, se scrivo in un certo senso immolandomi, per far emergere un fondo di cui
normalmente non vorrei nemmeno avere nozione. Per questo, a volte, ci troviamo dinanzi a
incredibili dicotomie: leggiamo un'opera e poi conosciamo l'autore e ci pare che le due
cose non vadano d'accordo.
Da un lato abbiamo l'opera, complessa, crudele, tormentata, e ci sembra impossibile che sia
nata da una persona così semplice, così banale e limitata. La spiegazione è che, quando
quell'essere così limitato, così banale, così semplice, che conosco, si mette a scrivere,
si aprono le porte di un mondo segreto che lui non mostra nella sua vita quotidiana nemmeno
a se stesso. E quel mondo è il mondo che sta dietro alla straordinaria ricchezza della sua
opera."
Tutto torna. O almeno sembrerebbe.
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