15.4.03

L'altro giorno mi hanno regalato un libro di Reiner Maria Rilke, una raccolta: "Lettere ad un giovane poeta, lettere ad una giovane signora, su dio".
Non avevo mai letto nulla di Rilke e a parte la data di nascita e quella di morte continuo a non sapere nulla su di lui. L'edizione Adelphi infatti non e' granche' prodiga di notizie in materia.
A dire il vero non sono mai stata una grande curiosa dei retro copertina. I libri mi piace leggerli senza sapere nulla della vita di chi li ha scritti, per godermi il contenuto senza pregiudizi di alcun genere. Non sono come mia mamma che quando legge i libri gialli vuole sapere prima chi e' l'assassino cosi', dice, puo' leggere senza fretta e gustando i particolari.
Tornando al mio nuovo libro, sono riuscita a leggere le prime due lettere, che sono lettere vere. Sono indirizzate ad un giovane uomo, un poeta, che chiede a Rilke un giudizio sulla sua opera.
Rilke gli dice che per capire se veramente debba fare il poeta si deve domandare: "potrei io vivere senza scrivere?". Solo in caso la risposta a questa domanda sia negativa allora uno ha diritto di scrivere.
Inoltre non si deve guardare all'esterno per trovare giudizi e consensi sulle propri opere: la creazione artistica e' qualcosa in cui si e' soli e il soggetto della nostra opera deve venire dall'interno di noi stessi. Siamo veri poeti se riusciamo a vedere la poesia nella nostra vita, per quanto semplice e piana possa essere.
Ho sempre sospettato che ogni scrittore parlasse di se stesso e delle proprie esperienze nelle pagine dei suoi libri, quello che mi sono sempre domandata e' come facessero ad essere cosi' bravi a dissimulare, a trasfigurare la loro esperienza vissuta in qualcosa di completamente diverso.
Qualcuno(e non e' un indovinello snob e' che nel salvare la citazione mi sono dimenticata di segnarmi l'autore...mannaggia!) ha scritto:
"Quando uno scrive è se stesso, ma nella sua totalità. Mentre quando vivo e mi muovo in società e sono con i miei amici o con la mia famiglia io sono solo parte di me stesso: sono una parte cosciente di me stesso, una parte pubblica di me stesso, ma io non scrivo soltanto con quella parte cosciente, con quella parte pubblica di me stesso, al contrario. Quando scrivo, scrivo con la totalità della mia persona, con il meglio che c'è in me e con il peggio che c'è in me, scrivo con le mie idee, ma anche con i miei istinti, scrivo con le mie convinzioni, ma anche con le mie passioni. Da lì emergono gli angeli che ho dentro e i demoni che ho dentro, e spesso anche le cose che non vorrei sapere di possedere ma che vengono fuori al momento di scrivere, se scrivo con autenticità, se scrivo in un certo senso immolandomi, per far emergere un fondo di cui normalmente non vorrei nemmeno avere nozione. Per questo, a volte, ci troviamo dinanzi a incredibili dicotomie: leggiamo un'opera e poi conosciamo l'autore e ci pare che le due cose non vadano d'accordo.
Da un lato abbiamo l'opera, complessa, crudele, tormentata, e ci sembra impossibile che sia nata da una persona così semplice, così banale e limitata. La spiegazione è che, quando quell'essere così limitato, così banale, così semplice, che conosco, si mette a scrivere, si aprono le porte di un mondo segreto che lui non mostra nella sua vita quotidiana nemmeno a se stesso. E quel mondo è il mondo che sta dietro alla straordinaria ricchezza della sua opera."

Tutto torna. O almeno sembrerebbe.

Nessun commento: