25.1.10

E' noto che da quando ho sposato uno scenaggiatore ho smesso di andare al cinema.
Lo scorso anno pensavo di aver fatto una gran furbata facendomi portare a vedere Mamma mia il 1 di gennaio, in base alla convinzione che quel che si fa a capodanno si fa tutto l'anno. Nulla di più falso e al cinema nel 2009 ci sono andata forse solo quella volta, se non vogliamo contare il cineforum che però avevo organizzato e proiettato io e che quindi non mi sembra che valga.
Tutto questo per dire che Revolutionary Road lo avevo sentito nominare, ma solo di sfuggita, forse alla macchinetta del caffè dalla mia collega con la figlia appassionata di cinema e che solo dopo avevo realizzato che oltre al film esisteva un libro.
Così seguendo la tradizione natalizia, l'ho messo nell'elenco dei libri che mi piacerebbe leggere che passo a mio padre ogni dicembre.

New York, anni sessanta, piena suburbia. Una strada si diparte dalla statale 12 e si inerpica per la collina. E' Revolutionary Road, una strada di ordinate casette di perfieria, costruite in serie, ciascuna col suo giardino e l'auto lucente parcheggiata nel vialetto. Al di fuori dal complesso costruito in serie con effetto Disneyano, rimane la casa dei Wheeler, un po' distanziata si distingue dalle altre oltre che per la posizione, per un aspetto originale che le dà carattere.
I Wheeler sembrano la classica famiglia modello, marito che lavora in città, la moglie che sta a casa ad accudire i due bambini ovviamente biondi ovviamente belli.
Ma i Wheeler sono irrequieti, hanno altre aspirazioni rispetto alla vita stereotipata dei sobborghi urbani. Si sentono più dotati, più intelligenti, votati ad obiettivi più alti rispetto ai vicini. Pensano di essere solo accidentalmente inciampati in una vita piatta e monotona, ma che la situazione sia solamente momentanea.
Soffocati dalla mediocrità della routine quotidiana programmano una fuga verso una vita migliore e più bohemienne in Francia dove mentre April diventerà segrataria delle nazioni unite e porterà a casa la pagnotta, Frank finalmente riuscirà a trovare la sua strada. Ricerca lasciata in sospeso dopo la laurea a causa della gravidanza inaspettata di April.
Ma i Wheeler non sono abbastanza coraggiosi, non si vogliono abbastanza bene e forse non sono abbastanza veri per potare a compimento i propri sogni e l'epilogo della storia non puo' che essere drammatico.
Yates dipinge un affresco della middle class americana spietato come un quadro di Hopper. Nessuno si salva, non April non Frank, non i Campbell vicini di casa e amici. La forma vince sempre sulla sostanza, più che una ricerca di nuovi orizzonti di una vita migliore i personaggi sembrano impegnati nell'interpretare al meglio la loro parte. L'irrequietezza si trasforma in forza distruttrice anziché propulsiva.
Un libro disturbante a tratti perché tocca un nervo scoperto nelle vite di molti noi, la paura di invecchiare, il non ritrovarsi appieno nelle scelte fatte, l'idea di essere destinati a qualcosa di più grande ed alto senza nemmeno sapere cosa questo altro sia.

22.1.10

Corso di fotografia, lezione sull'utilizzo dei flash.
La classe - finalmente riunita quasi al completo - ascolta la spiegazione di S. sui flash. Integrati, esterni, lampade flash, numeri guida, potenza, raggio d'azione e sincro con la tendina.
Ogni tanto il telefono di S. squilla è il modello disperso nei meandri della città che non trova la via della scuola, nonostante ci sia stato già diverse volte.
S. ci racconta che lui e R. si sono conosciuti da diciannovenni e poi si sono persi di vista. Ai tempi R. era alto magro e allampanato, quando l'ha rivisto dopo quindici anni era diventato una montagna di muscoli. Ci raccomanda di non farlo arrabbiare che con una sola sberla è in grado di mischiarci le ossa.
Nonostante la presentazione quando finalmente il modello fa il suo ingresso, non siamo comunque pronti. Un armadio deambulante con trolley al seguito e uno spolverino di pelle di pecora, oscura la porta di ingresso. Io e P. evitiamo di guardarci per non scoppiare in risate fragorose.
R. a dispetto della stazza che incute timore e del look che lascia un poco perlessi è comunque molto disponibile e calato nel ruolo. Il trolley contiene le varie mise che si è portato dietro.
Per cominciare si presenta con un completino gessato vagamente brillante alla Al Capone indossato però in stile California Dream Man, ossia con camicia sbottonata sul petto a mostrare tatuaggio su pettorale e cravatta slacciata ciondoloni.
Il problema nel fotografarlo è che data la mole delle spalle e delle braccia, la testa inevitabilmente tende a sparire.
Col senno di poi rivedendo le foto ho capito che più che sul viso avrei dovuto concentrarmi sui pettorali.
La seconda mise adottata, un po' da gangsta rapper con canotta pantaloni della tuta e berrettino in lana calato sulla fronte probabilmente lo rappresentava meglio, peccato che il mio turno fosse passato e che nel mio portfolio adesso ci sia solo Al Capone con gli occhi da bue.

7.1.10

Il 2010 ha portato con sè uno stato di inspiegabile energia o forse il mio pessimismo cosmico è rimasto intrappolato nel 2009 e non è ancora riuscito a riacciuffarmi.
E' una delle rare volte in vita mia in cui guardandomi allo specchio, pensando alla mia vita non mi sminuisco, non mi arrabbio, non penso "che barba che noia".
Penso che per quanto in maniera pasticciata e poco costante, per quanto con ampli margini di miglioramento faccio un sacco di cose belle, interessanti, a tratti anche utili.
E non mi riconosco, davvero. Io eterna insoddisfatta, eterna irrequieta, eterna ipercritica nei confronti di me stessa che improvvisamente sono indulgente con le mie pecche e fiera dei miei meriti.
Non so quanto durerà, non so quanto dura sarà la (ri)caduta, ma per il momento me la godo.

6.1.10

Steve Mc Curry
Sud Est
Palazzo della Ragione, Milano
11 novembre 2009 - 31 gennaio 2010
ingresso con riduzione feltrinelli fnac etc 6,5€

Prima di iniziare il corso di ritratto, Steve Mc Curry per me era una delle sue fotografie, la ragazzina afghana con gli occhi verde ghiaccio e il velo rosso attorno al capo.
Nella contraddizione che mi contraddistingue infatti, sebbene il mio primo insegnante di fotografia mi abbia diagnosticato una tendenza alla fotografia emozionale a colori, come spettatrice sono una fan del bianco e nero, del segno grafico ben definito, della ripartizione netta fra luci ed ombre oppure di quelle foto senza tempo in cui la grana della pellicola è percepibile e crea una atmosfera sospesa, fatata.
Non mi ero quindi mai posta il problema di sapere quali fossero le altre foto che McCurry aveva scattato, anche per una sorta di istintivo pregiudizio: troppo facile fare una bella foto in un paese straniero, con quei colori. Come se per solo il fatto di essere all'estero i condizionamenti che ci portiamo dietro automaticamente siano destinati a cadere e entrare in contatto con il prossimo diventi un gioco da ragazzi.
Io e il mio rapporto ambivalente con la foto a colori in terre straniere siamo quindi arrivati al palazzo della ragione con aspettative contraddittorie, se da un lato avevamo avuto giudizi estasiati dagli amici che l'avevano visitata, dall'altro eravamo un po' titubanti.
La prima cosa che colpisce varcata la soglia è l'allestimento delle foto e non solo per via di questi pannelli neri che vanno da pavimento a soffitto a cui sono appese e che creano una sorta di labirinto in cui perdersi piuttosto che un percorso ordinato e prestabilito, ma soprattutto per la luce.
Non sono una grande frequentarice di mostre, ma questa è in assoluto la prima mostra in cui da qualsiasi punto uno guardi una foto, sia col naso attaccato a un millimetro sia un po' discosto, la foto è perfettamente illuminata e non ci sono fastidiosi riflessi che ne disturbano la contemplazione.
La mostra è articolata in sei aree tematiche: ritratti, il silenzio e il viaggio, la guerra, la gioia, l'infanzia, la bellezza. Fra i ritratti che spaziano dalla bambina ridente sulla panchina di Roma, ad anziani monaci tibetani, la foto che mi ha colpito di più in assoluto è quella del minatore afghano. Il volto scavato dalle rughe e sporco di fuliggine, la sguardo vivo e sorridente.
Fra le foto della seconda sezione la presenza umana, per quanto minuscola al cospetto della natura e del soggetto ne è parte imprescindibile ed integrante. La mia favorita è la foto di due gigantesche navi ormeggiate praticamente sulla spiaggia e di un minuscolo essere umano con i piedi a bagno nell'acqua vicino a queste immense prue.
Le foto di guerra sono forse quelle che mi sono piaciute meno, mi sono sembrate meno coinvolgenti. Di sicuro anche quelle più crude scattate in Iraq nel 91 tipo l'uomo carbonizzato, nella loro drammaticità non sono mai crude.
Le foto sull'infanzia ci mostrano bambini spaventati, come il bambino yemenita tenuto per mano da adulti dotati di coltellacci o diventati adulti troppo presto, infanzia a mano armata. Alcuni spavaldi con le loro pistole in pugno, alcuni come il bambino peruviano armati, ma in lacrime.
Le ultime foto infine sono ritratti di ragazze, la famosa ragazzina afghana dagli occhi verde ghiaccio e altre due giovani donne. Sguardi intensi, personaggi che si trasfigurano dalla situazione contingente per diventare icone.
Ho lasciato alla mostra il mio pregiudizio per portarmi a casa un costossisimo quanto meraviglioso libro di fotografie, The Unguarded Moment.