24.3.05

Lei erano 12 anni che stava in Italia e due che lottava con la burocrazia per avere la cittadinanza definitiva.
La madre di lui invece era polacca, ma viveva negli Stati Uniti col nuovo marito.
Questa è la storia di un passaporto che doveva arrivare per posta.
Era il passaporto di lei, perché lui di passaporti ne aveva due: quello italiano e quello polacco e non si esclude che per un bizzarro assurdo della burocrazia non ne avrebbe potuti avere tre, mentre lei attendeva il suo visto che doveva, appunto, arrivare per posta.
Il portinaio adetto al ritiro della posta era un bravo ragazzo, con una strana parlata e una strana affettazione nel richiamare all'ordine il suo gatto dalla coda a piumino. La posta però la consegnava in slot di almeno 5 buste, come se per una sola busta non valesse la pena di salire le scale, aprire la porta dell'appartamento del destinatario e lasciarla lì sul tavolo.
Come se fosse il numero a fare la differenza e non il contenuto.
Come se un passaporto "straniero" smarrito non causasse almeno otto mesi di disagi al proprietario e otto mesi non cambiassero il corso di una vita.
Lei era bionda e lui moro e si erano conosciuti una sera al pub come centinaia di altre coppie.
E come centinaia di altre volte accade, si erano piaciuti subito.
Quello che non accade spesso invece è che Elio abbia più ragione della tradizione popolare e che di conseguenza fra il dire e il fare non ci sia di mezzo il mare, ma solo "e il".
E così nel giro di neanche un mese, dalla dichiarazione sotto un lampione di un venerdì notte all'ufficializzazione della storia la domenica pomeriggio, si era finiti alla pianificazione attenta del viaggio di nozze. Anzi. Del viaggio *per* le nozze.
Perché in quell'intrico di geografia e parentele, per lei rumena non ancora italianizzata era più facile sposarsi negli stati uniti e poi far riconoscere il matrimonio in Italia che avere dal suo paese d'origine l'autorizzazione a sposarsi in Italia. Così, come nel peggior film on the road, si sarebbe sposata a Las Vegas. Ma quello non era un caso di notte brava ed ubriachezza molesta che conducono ad atti inconsulti, quello era, e glielo si leggeva negli occhi, un caso lampante di colpo di fulmine.
Per andare a Las Vegas, però, lei aveva bisogno di quel visto e del suo passaporto. Il consolato americano, forse per minimizzare gli accessi di cittadini stranieri e potenziali terroristi alle sue strutture, una volta esaminato il caso e vidimato il documento, non consente il ritiro diretto dello stesso da parte del suo proprietario. Lo imbusta e lo spedisce via posta prioritaria, non senza averti prima comunicato che nel momento in cui il passaporto varcherà le soglie dei loro uffici per rotolare nella cassetta della posta loro non si riterranno più reponsabili delle sue sorti. Come se le poste italiane potessero essere responsabili di qualcosa.
Così lei aspettava la posta per prenotare il suo biglietto aereo e intanto sognava Las Vegas e l'anello che avrebbe orgogliosamente mostrato dalla mano destra.
Certo, l'immagine di un giudice di pace, disturbato nella pennichella del dopo pranzo davanti alla tv, che abbandona le ciabatte per un paio di scarpe argentate e una parrucca alla Elvis Presley, mentre la moglie toglie la melodica dalla scatola per suonare l'inno nuziale, forse non è romantica di per sé, ma con loro come protagonisti non può che diventarlo.
Soprattutto adesso che il passaporto è arrivato.

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