30.10.06

To London and back.
Qualche tempo fa scrivevo a Michele che la mia valvola di sfogo dalle frustrazione lavorative consiste nell’organizzare un viaggio che mi porti via per qualche tempo, una fuga per sgombrare la mente e ricominciare con più energia. Purtroppo un fine settimana a Londra non è bastato e con questo triplo cambio dell’ora unito al ritardo dell’aereo di ieri sera, oggi rientrando in ufficio mi sembrava di non averlo mai lasciato.
Londra mi piace sempre. Le cabine del telefono rosse, i double decker, le insegne della Tube sono sempre lì ed ogni volta ti sembra di ritrovare una vecchia amica col suo inconfondibile modo di vestire.
Il proprietario dell’hotel era un pazzo scatenato che, abbiamo stabilito, doveva aver reclutato degli amici per simulare uno staff per le fotografie del sito. In realtà probabilmente era lui a gestire il tutto dal basement della casa vittoriana in cui l’hotel era situato. Le sue english breakfast erano impagabili, le stanze dell’hotel invece, decisamente al di sotto delle aspettative che la cifra a notte richiesta, generava.
Abbiamo camminato un sacco da Victoria a Westminster, dalle Horse Guard House a Trafalgar. Da un breve giro alla National Gallery a Piccadilly Circus. Incredibilmente, ma nemmeno troppo, sono riuscita a stare male per colpa di Montezuma il primo giorno a Londra, quando in Messico l’avevo scampata per quasi tutta la vacanza. Colpa della pizza prosciutto e ananas del Pizza Hut in cui abbiamo pranzato, unito ai jeans a vita bassa e al venticello gelido che tirava.
A Piccadilly siamo entrati da Fortnum and Mason, il cui reparto gastronomia sembra la versione inglese di Peck e per il cui reparto decorazioni natalizie non trovo paragoni, basti dire che una pallina per l’albero si aggirava sui 15 £. Il bagno poi era ribattezzato “Sala da cipria per le signore” e una inserviente zelantissima non appena uscivi, si precipitava a cancellare le eventuali tracce del tuo passaggio con straccio e spruzzino. Gli arredi erano decisamente liberty.
Ci siamo incantati da Waterstone, mentre abbiamo rimandato gli acquisti musicali nonostante un passaggio alla Virgin, senza sapere che saremmo tornati con una tonnellata di libri e nemmeno un cd. Per tornare abbiamo attraversato il Saint James Park e inseguito gli scoiattoli per fotografarli.
La sera eravamo stravolti dalla levataccia mattutina per prendere il volo delle 6.35 da Bergamo e dopo aver cenato vicino a casa siamo tornati in albergo a dormire senza saggiare la vita notturna londinese.
Sabato mattina l’abbiamo consacrato al mercato di Portobello e alle sue mille inutilità. I banchi di presunto antiquariato mi lasciavano perplessa, soprattutto gli aggeggi per reggere le fette di pane tostate venduti a 35 £ in tutto e per tutto simili a quelli che il nostro albergatore ci metteva sul tavolo alla mattina. Da Portobello sono tornata con un marchingegno a forma di scimmietta che una volta azionato un pulsante decorato da banane ti soffia l’aria sulle unghie delle mani per far asciugare in fretta lo smalto e una tavoletta in legno con l’insegna di un pub da appendere sopra il testo in rame in cucina.
Dopo Portobello è stato il momento di Soho e Carnaby street, dove sono definitivamente scomparse anche le ultime vestigia di quella che era la prima volta che ci ho messo piede. Credo che ci siano dei cecchini e se un punk per sbaglio decidesse di varcare l’arco che delimita l’estremità della via, verrebbe abbattuto seduta stante. Da Carnaby siamo passati a China Town e alle sue anatre laccate appese nelle vetrine dei ristoranti e poi a Covent Garden.
Infine resici conto che la domenica Harrod’s sarebbe stato chiuso, siamo corsi a visitarlo. Qualcuno mi rimprovererà di non essere passata al British Museum e aver preferito il tempio del consumismo. In effetti non posso dargli torto. Ma il memoriale a Dodi e Diana ai piedi della scala mobile con la sfinge dorata meritava il giro. Niente da fare per il vagheggiato acquisto di una borsa Mulberry che è risultata costare 470 £, ed io che mi lamentavo dei 320 € di una borsa della Coccinelle. Sbalorditivo il giro nel reparto gioielleria da Tiffany e Cartier. Negli espositori erano presenti solo gioielli che costavano come il mio stipendio lordo annuale, ma lungi dall’essere inattivi i commessi erano intenti a riscuotere assegni e a strisciare carte di credito di persone all’apparenza normali che però non ritenevano strano aggiungere al giro di shopping pomeridiano l’acquisto di un orologio tempestato di diamanti.
La sera abbiamo avuto una disavventura culinaria, a causa dei nostri ritmi meridionali infatti pretendevamo di mangiare al pub verso le nove di sera, quando ormai metà degli avventori, cuoco compreso, giacevano stramazzati sotto al bancone. Alla fine ci siamo accontentati di un fast food vegetariano.
Domenica c’era un bel sole caldo e ne abbiamo approfittato per passeggiare lungo il Tamigi dal Westminster Bridge fino alla Tate Modern e ritorno. Siamo poi tornati in visita agli scoiattoli del Saint James Park che, ipernutriti come sono, spesso disdegnavano le nocciole non salata da noi acquistate a caro prezzo da Sainsbury. A pranzo finalmente siamo riusciti a mangiare Jacket Potatoes al pub. Poi è iniziata l’odissea del viaggio di rientro.

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